La Fismic commenta il Job act proposto dal segretario del Pd Renzi
Cuneo fiscale e semplificazioni prioritari
Un contratto unico si può discutere, a patto che non sia l’unico contratto. Con queste parole inizia il nostro commento alla presentazione sintetica del «Job act» fatta dal segretario del Partito democratico, Matteo Renzi, sul suo blog personale.
Nella Parte A (Sistema) si sollecita, tra le altre cose, una riduzione «del 10%» del costo dell’energia per le aziende e uno spostamento della tassazione dal lavoro alle rendite. Il target, in questo senso, è una riduzione del 10%, dell’Irap: «Chi produce lavoro», spiega la bozza, «paga di meno, chi si muove in ambito finanziario paga di più, consentendo una riduzione del 10% dell’Irap per le aziende che offrono nuovi posti di lavoro». Sembrano positive le iniziative che intende sostenere Renzi, annunciate nella prima parte della legge, come ridurre il costo per le aziende, soprattutto quelle piccole per far ripartire la produttività; rendere digitale ogni azione di pagamento e l’adozione dell’obbligo di trasparenza per partiti, amministrazioni pubbliche e sindacati.Altra novità anticipata da Renzi è l’eliminazione della figura del dirigente a tempo indeterminato nel settore pubblico. Un dipendente pubblico è a tempo indeterminato se vince un concorso. Un dirigente no. Stop allo strapotere delle burocrazie ministeriali, secondo la bozza. Un attacco che arriva con un tempismo perfetto, nei giorni del pasticcio tra il ministero dell’Istruzione e quello dell’Economia sui 150 euro chiesti indietro agli insegnanti.La seconda parte si concentra invece sull’aspetto lavorativo per la creazione di nuovi posti di lavoro, il che rappresenta sicuramente un argomento nobile e che ci preme maggiormente, visto che la nostra azione quotidiana si basa proprio sulla difese e la realizzazione di ulteriori posti di lavoro, ma che cosa pensa di fare il neo-segretario del Pd? Di istituire un unico piano industriale con l’indicazione delle singole azioni operative necessarie, ovvero omologare ogni azienda, ogni luogo di lavoro e costringerle a seguire un unico piano industriale, il che ci pare paradossale, proprio perché ogni azienda ha prerogative ed aspetti diversi l’una dall’altra, e così deve essere anche il loro stesso piano industriale, ad hoc per la sua riuscita. Renzi ha sempre parlato di una necessità di riformare il mercato del lavoro, semplificandolo. E noi siamo assolutamente d’accordo. Proponiamo di destinare tutte le risorse della spending review alla riduzione del cuneo fiscale e di semplificare le norme sul lavoro sulla base del principio di sussidiarietà. Ossia fissare alcuni pochi contenuti inderogabili e demandare alla contrattazione aziendale e individuale tutto il resto. Questa a nostro avviso dovrebbe essere la Grande Riforma del Mercato del Lavoro che permetterebbe realmente alle imprese di liberarsi delle eccessive rigidità imposte dalle regole attuali e darebbe la spinta ad una crescita occupazionale in grado di farci recuperare il gap con il resto dei maggiori Paesi industrializzati.Certo, è improprio chiamarlo unico considerato che non cancellerà tutti gli altri istituti oggi esistenti. Le imprese, se se ne riducono i vincoli, useranno l’apprendistato per collegare al meglio scuola e lavoro. Anche il contratto a termine sarà scelto per la stagionalità, la sostituzione o altre esigenze contingenti e lo dobbiamo anzi semplificare. Discorso analogo per il lavoro intermittente, importante nei picchi di lavoro non programmabili. Il punto è che questo, chiamiamolo contratto prevalente, affronta solo una parte del problema. Ma è proprio l’ultimo capitolo, quello sulle regole, su cui sono puntati i fari, aspettando il 16 gennaio, quando il testo definitivo sarà presentato alla Direzione nazionale del Pd.Si parte dalla semplificazione delle norme, con la «Presentazione entro otto mesi di un codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero» e si passa alla riduzione delle forme contrattuali caratterizzata, ed è questo uno dei capitoli più attesi, dal nuovo contratto di inserimento a tutele crescenti.La strada è quella già tracciata della «Flexsecurity» scandinava, con l’introduzione di una nuova forma contrattuale più «snella» per i datori di lavoro destinata però a crescere – in termini di garanzie per i lavoratori – a mano a mano che il rapporto di lavoro prosegue. In attesa di conoscere il merito compiuto della proposta, avanziamo subito una critica: Renzi aveva parlato di tre mesi come tempo massimo perché il Paese si potesse dotare di regole moderne ed efficaci per riformare il mercato del lavoro e aveva anche ipotizzato un possibile attacco finale al totem della sinistra radicale italiana costituito dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Qua invece si parla di otto mesi e non di tre e scompare quasi del tutto il possibile pensionamento dell’art. 18 dello Statuto.Altra novità, la creazione di un assegno universale di disoccupazione, esteso anche alla fetta di lavoratori – prevalentemente precari – che oggi ne sono esclusi. Indennità però vincolata, sulla sorta del modello nordico, all’ «obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro». Per tale questione il grande limite è la completa assenza di qualunque riferimento di come si possono trovare le risorse finanziarie necessarie per sostenere l’assegno universale di disoccupazione e di come questo si integrerà con il neonato Aspi ed inoltre se questa nuova misura supererà le attuali forme di ammortizzatori sociali (cig, cigs, cassa in deroga, indennità di mobilità ecc.) e di come anche attraverso questo nuovo assegno si possa affrontare o meno l’annoso problema dei cosiddetti esodati. Ci sembrano tali questioni di non piccolo conto, visto che, secondo gli ultimi dati Istat, i disoccupati sono ufficialmente il 12,7% del totale e i disoccupati under 24 arrivano al 41,6; a questi bisognerebbe anche aggiungere il considerevole numero dei cosiddetti scoraggiati (coloro che non hanno lavoro, ma non sono iscritti alle liste di disoccupazione) che le statistiche collocano intorno ai 3 milioni di persone. Visto e considerato i limiti della spesa pubblica italiana, i ritardi della spending review e la previsione che nell’anno in corso, nonostante le nuove tasse, il rapporto deficit/pil sarà per i primi mesi dell’anno oltre il 3,7%, la questione delle risorse finanziarie da destinare al nuovo ammortizzatore sociale universale non ci sembra di poco conto.Perché non pensare che all’interno di alcuni principi fondamentali possano essere le parti a disciplinare coerentemente il proprio rapporto di lavoro? È in azienda che ci si adatta. E questo lo si può fare in termini collettivi, cioè con la contrattazione aziendale. Ma anche in termini individuali, purché assistiti e il tutto certificato. Siamo d’accordo che un licenziamento senza giusta causa vada sanzionato con la reintegra o un giusto indennizzo. È un principio fondamentale. Ma perché la scelta tra reintegra o risarcimento non la rimettiamo alle parti? Anche lo stesso eventuale contenzioso: perché non devolverlo a priori ad un collegio arbitrale? E così si potrebbero affrontare pure altri temi. Le norme per farlo ci sono già per l’accordo aziendale nell’articolo 8 della manovra 2011. Basta applicarle e integrarle. E si può così sostituire lo Statuto dei lavoratori con uno moderno, semplice perché sussidiario in favore della contrattazione aziendale e individuale assistita e certificata. Se l’obiettivo è portare il lavoro prepotentemente in primo piano nell’agenda di governo 2014 occorre rilanciare il ruolo della contrattazione in azienda. In quella sede le parti, datori e lavoratori, si guardano negli occhi. E all’interno di alcuni principi fondamentali si possono adattare le regole e le tutele alle concrete circostanze. O in termini collettivi. Ma anche attraverso contratti individuali assistiti e certificati per evitare eventuali abusi.