Home News L’emorragia italiana di aziende perdute. Come reagire

Corriere della Sera, 03-10-2013
(c) CORRIERE DELLA SERA
Dalla rubrica Risponde Sergio Romano

Da decenni si assiste al graduale e inesorabile impoverimento dell’Italia con decine e decine di aziende di livello mondiale che sono sparite dal firmamento industriale. Penso alla Olivetti, alla Montecatini, poi Montedison e a tutta l’industria chimica di base italiana, alla Falk, alla Breda, ecc., a tutta l’industria degli elettrodomestici, Ignis, Indesit, Rex, Candy ecc. ecc., a tutta l’industria delle radio, grammofoni e via dicendo, per non parlare dell’industria farmaceutica, Farmitalia, Carlo Erba e Lepetit che erano diffuse planetariamente già negli anni 50 e di esse non c’è più traccia. Non mi dilungo perché l’elenco sarebbe lunghissimo. Una distruzione sistematica! A chi la colpa? Come si è arrivati ad una simile barbarie?

Merry del Val (domingo@merrydelval.com)

Risponde Sergio Romano

Se ne accorse tra i primi Marcello de Cecco nel 1993 durante un seminario sull’Italia organizzato a Washington dalla Scuola di politica internazionale della Università Johns Hopkins. Non era la sola voce critica e realistica di quegli anni, ma la vulgata economica italiana era dominata allora dalla retorica delle piccole e medie imprese, universalmente considerate una rassicurante dimostrazione della fantasia e della genialità del Paese. Il declino della grande industria era già cominciato da tempo, ma l’Italia rifiutava di prenderne atto e i politici continuavano a lanciare segnali di ottimismo. Più tardi, quando il fenomeno era ormai evidente, i governi (in particolare quelli di Silvio Berlusconi) continuarono a sostenere che «declino» era un parola «disfattista». Questa riluttanza ad affrontare il problema e a cercarne le cause ha ingannato gli italiani e accelerato la crisi del sistema.

Resta da capire perché un Paese dinamico e laborioso (come l’Italia è stata nei suoi momenti migliori) abbia imboccato la strada sbagliata. Proverò ad elencare alcune cause.

La prima, probabilmente, è la cultura anticapitalista del ’68. In Francia la «rivoluzione» degli studenti durò tre o quattro mesi, da maggio all’inizio dell’autunno. In Italia la contestazione è diventata il male cronico del Paese. Non penso soltanto alla violenza del terrorismo. Penso anche e soprattutto al modo in cui legislatori, sindacati e magistrati hanno imprigionato le imprese in una rete di norme e sentenze che ne tarpavano le ali. Molte piccole e medie imprese sono il risultato delle difficoltà incontrate dalle grandi aziende. Ci siamo rifugiati nel «piccolo» perché il «grande» era diventato sempre più difficile e rischioso.

Questo clima anticapitalista ha avuto l’effetto di ritardare la modernizzazione del Paese. Gli anni Ottanta e Novanta sono quelli in cui quasi ovunque le industrie, le società di servizi e la pubblica amministrazione hanno usato le nuove tecnologie per realizzare, a tutti i livelli, uno straordinario aumento della produttività e per creare imprese di tipo nuovo come quelle sorte intorno all’uso della rete. L’Italia ha mancato questa grande occasione e ha ceduto ad altri molti spazi che avrebbe potuto conquistare e occupare.

Esistono altre cause fra le quali, in particolare, la crescente riluttanza dei capitali stranieri a fare investimenti sul futuro del Paese. La giustizia è troppo lenta, la burocrazia troppo ottusa e farraginosa, l’istruzione tecnico-professionale troppo carente, i sindacati troppo invasivi. Quando vogliono mettere denari in Italia le imprese straniere lo fanno generalmente comprando aziende che portano in dote una considerevole fetta del mercato interno o marchi che godono di una reputazione mondiale. E l’emorragia continua.

A-Torino-il-17-ottobre

Gabriele Caragnano commenta e integra

La mancata crescita di molte aziende italiane è in gran parte dovuta a fattori culturali (cultura anticapitalistica), che è rimasta legata a schemi di contrapposizione del tipo padrone-lavoratore, capitale-lavoro, colletti blu-colletti bianchi … Il primo fattore critico di successo di una squadra (e di un’azienda) è l’allineamento degli obiettivi . Detto questo, non penso che sia sano assistere all’emorragia in silenzio e senza reagire. E’ imperativo tornare a creare uno spirito di collaborazione tra tutte le parti sociali, fuori e dentro le aziende. I moderni modelli operativi delle principali aziende mondiali di successo si basano sulla trasparenza e sulla oggettivazione di tutte le forme di perdita (intese come deviazioni da riferimenti standard di eccellenza condivisi), che creano sempre la distruzione del valore. Creare valore in azienda significa creare lavoro e benessere per tutti, dall’addetto al ricevimento all’amministratore delegato, determinando le condizioni future di sostenibilità del business e, di conseguenza, del nostro amato Paese. Non ci sono altre ricette se non quella di rimboccarsi le maniche insieme e lavorare sui dettagli di ogni processo per ritrovare ordine e ritmo, presupposti fondamentali dell’eccellenza operativa (Il Diavolo si nasconde nei dettagli …).

Nella prossima conferenza del 17 ottobre sul tema Produttività nelle PMI racconteremo come si possa agire per ritrovare forza e competitività con un approccio scientifico e allo stesso tempo partecipativo. Vi attendiamo numerosi!

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