Home Blog Fiat, come cambia il lavoro in fabbrica nelle pagelle di 5 mila...

di Diodato Pirone - Ci voleva un altro operaio per spezzare il circuito vizioso schiavitù-rabbia-schiavitù nel quale Cipputi è imprigionato da anni. E da anni, infatti, non accadeva che un operaio di fabbrica parlasse nell’aula di una Università per raccontare non rancore e frustrazione ma come cambia il suo lavoro. Nel bene e nel male. Un evento minuscolo in sé, ma da non sottovalutare per un paese manifatturiero come l’Italia che ha perso la capacità di raccontare le sue fabbriche per come sono realmente. Da dentro, e non da fuori i cancelli.

L’anti-Cipputi si chiama Alfredo Esposito ed è un napoletano trent’enne, diplomato, che lavora al montaggio Panda nella fabbrica Fiat di Pomigliano d’Arco. Qualche giorno fa, nell’aula 27.01 del Politecnico di Milano, Esposito ha descritto la sua esperienza di team leader, ovvero il lavoro di una nuova figura operaia non destinata a lavorare con le mani ma a coordinare il lavoro di sei suoi colleghi raccolti in un “dominio” di cui Esposito – così come oltre 130 suoi colleghi di Pomigliano – è responsabile sia per la risoluzione dei mille problemi spiccioli sia per il raggiungimento di obiettivi di produzione e di qualità. Un lavoro molto più complesso e partecipato di quello chiesto in passato ad un operaio e lontano mille miglia dalle descrizioni da barzelletta (“Non possono neanche fare la pipì”) che si sentono in tivvù sugli operai Fiat.

A far emergere dall’ombra i tanti Alfredo Esposito italiani (83 mila solo quelli di Fiat, 5 milioni quelli che lavorano sotto un capannone) è stata un’indagine della Fim-Cisl intitolata “Le persone e la fabbrica”. Indagine presentata appunto al Politecnico meneghino, che i metalmeccanici cislini definiscono non senza orgoglio come “la prima inchiesta operaia di massa” condotta da molti anni a questa parte. L’hanno raccontata anche in questo bel video (http://youtu.be/qutqwn9reoY). Si tratta di oltre 5.000 questionari raccolti in 30 stabilimenti Fiat (sui 46 della rete italiana del Lingotto composta anche dalle fabbriche di trattori e di camion della Cnh, ex Fiat Industrial). Tutte queste fabbriche – assieme ad altre circa 500 dell’indotto Fiat – stanno adottando un nuovo modello di organizzazione del lavoro chiamato WCM (World Class Manufacturing).

Il WCM, in sintesi, è un sistema di lavoro di stampo toyotista, molto complesso e che richiede anni per essere “assorbito” e correttamente applicato. Ruota intorno ad un forte coinvolgimento dei dipendenti e ad una organizzazione stringente, curata al centesimo di secondo, che elimina le “perdite di tempo” degli operai lungo le linee di montaggio. Il WCM, insomma, si basa su uno scambio: l’azienda fa lavorare meglio il dipendente ma gli chiede di collaborare anche con la testa.

I risultati dell’indagine Fim-Cisl sono stati messi in fila da un comitato scientifico composto da docenti dei Politecnici di Milano (in particolare del dipartimento Mip) e di Torino, coordinati dal professor Luciano Pero, che assieme a 230 delegati Fim hanno lavorato gratuitamente per circa un anno. Due le annotazioni importanti: la ricerca raccoglie solo il 6% di risposte di quadri che invece occupano l’11% dei posti di lavoro Fiat e comprende risposte di iscritti e simpatizzanti Fiom anche se il grosso viene fatalmente dagli ambienti più vicini alla Fim che in Fiat è il sindacato con più iscritti.

Quali i principali risultati dell’inchiesta? Il primo: il 64% dei lavoratori Fiat riconosce che il WCM determina una fabbrica più dolce, più interessante e più organizzata perché riduce la fatica fisica, semplifica le mansioni e assicura ordine, pulizia e sicurezza. Circa il 66% delle risposte (in particolare quelle degli operai più anziani) indicano però una vita professionale più spigolosa sul piano psichico sia per l’aumento dello stress causato dai tempi di montaggio più stretti (l’operaio oggi non perde tempo a passeggiare per andare a prendere i pezzi da montare che invece gli arrivano a portata di mano) sia perché spesso si viene chiamati a ruotare di postazione o a fornire proposte da un caposquadra, il team leader, che non è imboscato in qualche ufficio ma sta a due passi tutti i momenti.

Il 55% dei dipendenti Fiat apprezza però la riduzione degli sprechi e il 56% sottolinea che la qualità del prodotto è salita. Fiat e Cnh si confermano imperi con molte province e dunque laddove il nuovo sistema è già applicato da alcuni anni, come a Pomigliano, Cassino e Melfi (per l’assemblaggio auto), Pratola Serra (motori), Verrone (cambi), la percentuale di “ok” è molto alta e si avvicina al 90%. Laddove invece l’implementazione del WCM è ancora all’inizio il grado di apprezzamento scende e crolla in alcuni casi al di sotto del 50%.

C’è poi un elemento non secondario: al di fuori degli stabilimenti più brillanti (va ricordato che Pomigliano ha raggiunto il livello d’oro del WCM ed è stato premiato dalla rivista tedesca AutoProduktion come miglior stabilimento europeo) gli operai Fiat si sentono ancora poco ascoltati e addirittura il 79% è deluso per l’inadeguatezza dei premi loro assegnati nonostante la gran mole di proposte accolte (15.000 idee sono diventate best praticse per tutti gli stabilimenti Fiat nel mondo).

Fra luci e ombre, dunque, l’indagine Fim sul WCM conferma la rivoluzione copernicana che si sta sviluppando nelle fabbriche Fiat. Stabilimenti impegnati in un complesso ma deciso abbandono del modello di comando di stampo militare (che per un secolo ha scolpito i rapporti Fiat-dipendenti) a favore di un sistema di relazioni molto più articolato ma decisamente partecipativo e di qualità più alta. Una scelta tutto sommato premiata dai lavoratori che, come l’indagine della Fim inaspettatamente racconta, nel 69% dei casi (ma al 90% a Pomigliano e Cassino) consiglierebbero ad altri operai di lavorare per la Fiat.

Che il modello partecipativo sia una scelta strategica per il Lingotto l’ha confermato nel dibattito svoltosi al Politecnico l’ingegner Luigi Galante che è il responsabile del manufacturing della rete degli stabilimenti europei, turchi e africani di Fiat. “Ci crediamo semplicemente perché questo sistema funziona”, ha detto Galante di fronte alle diffidenze verso il WCM di una parte dei quadri intermedi dell’azienda che secondo il sindacato sono emerse nel corso dell’indagine. Galante è stato molto chiaro usando parole un tempo impensabili per un alto dirigente del Lingotto. “Non è un gioco da ragazzi cambiare modello produttivo e mentre apprezziamo che dal territorio vengano critiche costruttive o incoraggiamenti per le nostre fabbriche quando incontriamo difficoltà ci mettiamo ad ascoltare”, ha sottolineato l’ingegnere raccontando delle riunioni che i dirigenti e i quadri dei plant “rimasti indietro” tengono con i team leader degli stabilimenti migliori. Anche i prof dei due Politecnici, pur fra critiche puntute (“Attenzione a non fare del team leader capetti autoritarie non auterevole”, ha sibilato il professor Pero) hanno dato atto al Lingotto d’aver permesso con un atto di grande trasparenza l’accensione di un faro sulla propria organizzazione interna come poche aziende italiane avrebbero il coraggio di fare.

Un approccio molto apprezzato dai dirigenti della Fim che per bocca del segretario Renato Farina e del responsaile fabbriche Fiat Ferdinando Uliano hanno confermato nuovamente la giustezza della scelta di collaborare con Fiat fatta nel 2010 dal sindacato guidato da Raffaele Bonanni. Per i due sindacalisti si è trattato di abbandonare il concetto di fabbrica del Novecento per puntare sulla rinascita di plant moderni con radici in nuove basi culturali oltre che produttive.

Già, ma se operai, fabbriche e azienda stanno cambiando, quale sarà il ruolo del sindacato nel futuro di questa nuova industria così diversa da quella del passato? La domanda che aleggiava nel Politecnico non ha ottenuto risposte chiare. Per l’Italia. Invece il sindacato americano, l’UAW, ha dimostrato nella risurrezione della Chrysler di saper monetizzare il suo ruolo con chiarezza e abilità. Tanto che nel testo dell’accordo di vendita al Lingotto del 41,5% di Chrysler di sua proprietà, l’UAW ha accettato senza problemi di collaborare attivamente all’implementazione del WCM in tutte le fabbriche Usa. Nella scuola americana del WCM sono addirittura gli istruttori del sindacato a insegnare agli operai i “segreti” del nuovo sistema. L’UAW, insomma, pur con qualche tensione, governa attivamente le fabbriche americane insieme ai manager aziendali.

E’ pensabile un’analoga strada in Italia dove i sindacati che collaborano con Fiat sono ben cinque (Fim, Uilm, Ugl, Fismic e Unione Quadri) mentre ce n’è uno, la Fiom, all’opposizione? Un tale intreccio di rappresentanza senza regole precise resisterà all’efficienza prodotta dal WCM che con il tempo tende a eliminare le rigide gerarchie della vecchia fabbrica e a premiare i lavoratori più attivi? E ancora: è davvero produttivo il braccio di ferro in atto da mesi fra azienda e sindacati “firmatari” sull’aumento di 40 euro lordi al mese per tutti i dipendenti che si traducono in meno di 30 euro mensili netti? L’ex sindacalista Cisl e sociologo Bruno Manghi, chiudendo i lavori del seminario del Politecnico, si è detto ottimista sul sindacalismo confederale destinato secondo lui a ritrovare un suo equilibrio positivo nel riassetto complessivo della Fiat. Ma nessuno, a partire dalla Fiat, sembra avere a riguardo risposte “facili” cui attingere quando sarà il momento di aprire qualche cassetto. Si vedrà. Per ora almeno una cosa è sicura: i tanti Alfredo Esposito che trottano in fabbrica mentre tanti blaterano hanno riottenuto parola e ruolo. Era ora.

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