Home Scienza La Fiat serve all’Italia. E l’Italia serve alla Fiat

RICARDO FRANCO LEVI
Corriere della Sera, 09-08-2013
(c) CORRIERE DELLA SERA

«Abbiamo davanti a noi un semestre di fuoco». Parlando in questi termini, pochi giorni fa, agli analisti finanziari, Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat, non si riferiva alla Fiom di Maurizio Landini e alle relazioni industriali nelle fabbriche italiane del gruppo (e neppure agli scenari politici sotto il sole di Roma), ma solo alla Chrysler, la controllata americana alle prese con una strozzatura nella sua catena di produzione. Ma è bene non farsi distrarre. Le sfide che il gruppo Fiat dovrà affrontare nei prossimi mesi (mesi non anni) riguarderanno tutte, direttamente o indirettamente, anche l’Italia. Guardando alla Chrysler, qualcuno potrebbe anche dire che Marchionne si stia «lamentando del brodo grasso».

I problemi che hanno costretto a limare al ribasso le stime di vendite e di utili per l’anno in corso derivano dalla difficoltà di stare dietro ad una domanda che da quando, nel 2009, la Fiat intervenne a salvare la Chrysler dal fallimento, ha già portato a più che raddoppiare la produzione. Quella di «una macchina industriale sottoposta a un enorme stress» non è per la Fiat né l’unica né la principale partita aperta in terra americana. Resta, infatti, da portare a compimento la conquista di quel 41,5 per cento del capitale della Chrysler che tuttora le manca. Il braccio di ferro con l’azionista di minoranza, il fondo sanitario Veba gestito dai sindacati dell’auto, è ancora in pieno corso e, per quanto l’esito finale della contesa non dovrebbe essere in dubbio, permane l’incertezza dei tempi. E dato che dal possesso della totalità del capitale della Chrysler dipendono necessariamente sia la possibilità per la Fiat di fare ricorso alla liquidità generata dalla casa americana sia, e ancor più, la stessa fusione tra Torino e Detroit, risulta evidente quanto grande sia l’interesse dell’Italia per queste vicende di oltre oceano. Ma poi, nell’agenda Fiat, c’è il grande capitolo che riguarda direttamente l’Italia. Chiamato a rispondere alla crisi che travolgeva le economie, Sergio Marchionne, con il pieno sostegno dell’azionista, ha tirato il freno sugli investimenti in nuovi modelli per il mercato italiano ed europeo sino ad azzerare quel progetto di Fabbrica Italia che lui stesso era andato a illustrare fin dentro alla Camera dei Deputati, abbandonando per un giorno il tradizionale maglione blu per la giacca e la cravatta imposte dalla tradizione parlamentare. Corroborate dalle cifre sulla continua perdita di quote di mercato del gruppo Fiat e dall’ammirazione per i sempre nuovi modelli e per i continui successi delle tedesche Volkswagen, Daimler e Bmw, le critiche al taglio degli investimenti deciso da Marchionne erano state continue e durissime. Col senno di poi, è giusto riconoscere che aveva ragione lui. Il crollo del mercato dell’auto è stato così drammatico e prolungato che gli ingentissimi investimenti necessari per un profondo rinnovamento dei modelli non sarebbero quasi certamente stati premiati da vendite sufficienti ma avrebbero scavato nei conti della Fiat voragini analoghe a quelle che si sono aperte nei bilanci delle francesi Peugeot-Citroen e Renault e della tedesca Opel, costrette a ricorrere all’aiuto le prime due dello Stato francese, la terza della casa madre americana General Motors. I conti dei primi sei mesi dell’anno e che registrano per tutti i produttori risultati finanziari migliori del previsto fanno, tuttavia, pensare che per l’industria europea dell’auto il peggio sia passato. Calcolando il tempo necessario per far arrivare sul mercato un nuovo modello, il momento di tornare ad investire è, dunque, arrivato, anche per la Fiat. Sergio Marchionne ha da tempo elaborato e illustrato una strategia di sviluppo mirata a spostare il gruppo Fiat su modelli più redditizi di quelli, come la Punto, che hanno tradizionalmente costituito il cuore della sua produzione «generalista». Avviato con successo nel campo delle piccole con la «500», straordinario esempio di trasformazione di un’utilitaria in un’auto capace di giustificare un di più di prezzo, il progetto prevede e richiede ora di essere compiutamente realizzato entrando finalmente in diretta concorrenza con le grandi tedesche che hanno sinora dominato incontrastate. È un progetto che porta i nomi della Maserati e, soprattutto, dell’Alfa Romeo. Determinato nel denunciare condizioni industriali che in Italia a suo dire rimangono «impossibili», Sergio Marchionne ha minacciato di spostare fuori dall’Italia la produzione dei prossimi (peraltro ancora indefiniti) modelli dell’Alfa Romeo, avvertendo che la Fiat «ha le alternative per realizzarli ovunque nel mondo». Qui s’innesta il tema delle alleanze internazionali (con una giapponese? Con l’indiana Tata Motors che porterebbe in dote in alto Land Rover e Jaguar e in basso la piccola Nano?), indispensabili per portare la Fiat nel novero dei grandissimi produttori su scala mondiale.

Un’Alfa Romeo prodotta fuori dall’Italia non sarebbe, però, un’autentica Alfa Romeo. Come il «made in Germany» è componente essenziale del prestigio e del successo delle Audi, delle Bmw e delle Mercedes, così il «made in Italy» è elemento costitutivo di quel fascino dell’auto italiana che ha nel mito della Ferrari la sua espressione più alta. Peraltro, senza l’Alfa Romeo, cioè senza gli investimenti del gruppo Fiat, l’Italia rischierebbe grosso. Con l’Inghilterra che, con otto stabilimenti tutti posseduti da compagnie straniere, si è ormai imposta come base di produzione e di esportazione e che nel Royal College of Art di Londra ha la più prestigiosa scuola di design automobilistico su scala mondiale e con la Germania della quale è quasi superfluo parlare, per l’Italia il pericolo di perdere il ruolo di «terra dei motori» è un pericolo concreto. Maranello da sola non può bastare. La Fiat serve all’Italia. E l’Italia serve alla Fiat. Il tempo a disposizione per tradurre queste convergenti necessità in un concreto progetto di sviluppo è limitato. Un «semestre di fuoco»?

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