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di Gabriele Caragnano – Urgente rivedere i modelli organizzativi delle imprese italiane per recuperare efficienza produttiva e investire nella formazione dei giovani per ottenere personale qualificato

«Non siamo vittime di un destino crudele e ineluttabile, siamo noi che possiamo e dobbiamo costruire il nostro futuro» così Giorgio Squinzi ha commentato il recente rapporto di Confindustria sugli scenari industriali.

Secondo il centro studi della nota Associazione, che ha elaborato la graduatoria dei Paesi industrializzati, l’Italia, superata dal Brasile, si attesta all’ultimo posto tra i produttori manifatturieri e rischia di uscire dal G8.  Infatti, mentre i volumi mondiali crescevano del 36% tra il 2000 e il 2013, l’Italia crollava con un -25,5%. La «massiccia erosione della base produttiva» ha portato alla chiusura di oltre centomila fabbriche e di conseguenza alla perdita di quasi un milione di posti di lavoro tra il 2001 e il 2011. In sei anni, quindi, l’Italia è passata dal quinto all’ottavo posto nella graduatoria internazionale dei maggiori Paesi produttori.

Partendo proprio da questi dati, è necessario sottolineare, ancora una volta, che il problema della Penisola è la debole e mal gestita efficienza produttiva delle ore lavorate in fabbrica. Pesano sul Paese «demeriti domestici» afferma lo studio, che hanno accentuato questo impressionante arretramento: dal 2007 al 2013 la produzione è scesa del 5% medio annuo, una contrazione non in linea con gli altri grandi Paesi manifatturieri.

L’industria manifatturiera italiana soffre per alcuni fattori chiave come il calo della domanda interna, la mancanza di credito e la redditività ai minimi storici. Ma uno dei fattori principali sottolineati proprio da Confindustria è l’aumento del costo del lavoro che non trova riscontro negli indici di produttività. Produttività che non può che diminuire se gli imprenditori italiani non decidono di rivedere drasticamente i modelli organizzativi del lavoro interno alle fabbriche. Qualità ed efficienza oggi dovrebbero essere le parole chiave su cui puntare ed in cui credere. 

Sempre in questi giorni Bankitalia ha reso nota la sua Relazione Annuale 2014, dove tra gli altri punti trattati, si fornisce particolare rilievo al tema dell’istruzione dei lavoratori italiani. Emerge che in Italia il margine di vantaggio per i giovani laureati si è drasticamente ridotto. La Relazione sottolinea il rapporto tra istruzione, formazione e sistema produttivo: «una maggiore disponibilità di capitale umano, inteso come patrimonio di conoscenze, competenze e abilità di cui le persone sono dotate – afferma Bankitalia – si associa a più elevati livelli di sviluppo; contribuisce ad aumentare la produttività sia direttamente, accrescendo la capacità della forza lavoro, sia indirettamente, incentivando l’adozione di tecnologie più avanzate».

Siamo un Paese con scarsa produttività dovuta a uno scarso livello di innovazione legato a un basso numero di lavoratori ad alta qualificazione. I giovani non si iscrivono all’università, perché in Italia la laurea vale poco, o meglio, paga poco. Questo quadro impedisce ai giovani di essere ambiziosi.

E’ l’Italia in generale che dovrebbe essere più ambiziosa. Oltre alla frase citata di Giorgio Squinzi che vuole essere una spinta verso il cambiamento, sulla stessa linea anche Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, confermato il superamento della fase acuta della crisi, sottolinea la necessità di attuare in tempi rapidi cambiamenti nelle politiche economiche sia in Italia che in Europa per accelerare il ritmo della ripresa e per dare risposte urgenti situazione dell’occupazione e dei giovani.

In sintesi, i due allarmi principali lanciati in questi giorni ovvero il calo dell’istruzione e gli scarsi investimenti da parte di Stato, banche e imprenditori sono gli elementi chiave su cui agire per costruire il nostro futuro.

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